“La scrittura è la pittura della voce.”
(Voltaire)
“Scrivere è prendere l’impronta dell’anima.”
(Multatuli)
La scrittura è un mezzo terapeutico potentissimo. Lo sa istintivamente chi tiene un diario e chi, come me, scrive libri e ha fatto della lettura e della scrittura un mestiere.
Scrivere aiuta a elaborare un trauma o una memoria dolorosa, favorendo un’osservazione diversa, più distante, più “oggettiva”. Diventa come osservarsi dall’esterno, uscendo dalla trama per osservare il disegno a distanza. La stesura comporta l’attivazione della parola come mezzo per mettere confini a sensazioni di sofferenza, insieme alla necessità di dire ciò che non si è potuto dire nel momento passato, chiudendo così un cerchio che nei pensieri, a volte ossessivi, rimane irrisolto.
Scrivere permette di concludere una storia esprimendo finalmente ciò che non è stato mai detto, a sé stessi e al fantasma (a volte persecutorio) della persona coinvolta nell’esperienza.
Le parole scortano le emozioni, danno loro un nome, permettono un riconoscimento più facile, scardinano la pesantezza dei pensieri invisibili che trovano consolazione e risarcimento nella forma scritta. E di questo si tratta: dare forma al dolore, alla rabbia, a ogni sensazione evocata. Ci permettono di dire le parole che non abbiamo detto espellendo da noi tutte le ferite trattenute che si “inchiodano” nella parola scritta che diventa scudo e armatura. E poi si lascia fluire l’emozione dalla carne alla carta.
Ci sono particolari suggerimenti per usare al meglio la scrittura come potenziale emotivo che vengono forniti all’inizio.
I libri come terapia sono conosciuti da sempre (così come il potere terapeutico di alcune fiabe e leggende), meno conosciuta è la writing therapy che propone un percorso guidato, facilitato da uno specchio esterno che valida e, alla fine, permette la riflessione su sé stessi attraverso l’ascolto empatico, silenzioso e accogliente del facilitatore durante la lettura finale ad alta voce. In quello spazio la scrittura diventa parola “parlata”, suono della sofferenza liberata. Prima appoggiata sulla carta, questa sofferenza alla fine del processo si “libera” di alcune pesi proprio attraverso la condivisione (che nei laboratori avviene in gruppo, mentre nelle sessioni individuali rimane nell’ambito della coppia: il facilitatore e il cliente).
Mi occupo di writing therapy da moltissimi anni (lo facevo anche nella prima vita, quando lavoravo nel mondo dell’editoria , ed è sempre meraviglia, gioia, soddisfazione condividere con le persone uno spazio intimo e delicato.
Alla fine lo scritto, che spesso prende vita con il nome di lettera (come nel caso di “lettera a un narcisista) viene bruciato per rappresentare un momento simbolico di trasformazione e liberazione.